Malinconia, pioggia, neve, paesaggi battuti dal vento, miserevoli costruzioni sovietiche in disfacimento, cani che si azzuffano; e tanti, tristi fiori per terra, davanti alle aguzze lame del monumento del genocidio a Tsitsernakaberd, la collina delle rondini; ma sullo stesso sfondo vedi anche pugni alzati, come un simbolo dell’eterna lotta degli armeni perché si sappia, perché gli eventi terribili del 1915 non rimangano sepolti nell’oblio.
E poi gli sguardi, tanti sguardi: fieri, non sconfitti, ma sui quali pesa un’infinita, antica tristezza.
Eccola, la “ferita armena”. Un titolo che richiama, suggestiona, convince.
Perché Antonella Monzoni c’è andata, in questa Armenia notturna, e ha camminato lungo le strade e nei cimiteri, i troppi cimiteri d’Armenia. Ha fotografato le millenarie pietre di questo paese, i pavimenti di lastre incise con le lettere meravigliose dell’antico alfabeto, le massicce lastre tombali da cui freschi visi giovanili guardano riflessivamente, come da un altare, i superstiti piegati dalla fatica di vivere.
(dalla presentazione di Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena, autrice del romanzo “La masseria delle allodole”, Rizzoli)
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