L’accostamento di elementi appartenenti a realtà diverse è stato uno dei cardini del movimento surrealista, che scelse la frase di Lautrément – “l’ombrello e la macchina da cucire sul tavolo operatorio” – come manifesto di una nuova estetica basata sullo spiazzamento e la contraddizione. La presenza di oggetti notevolmente incongrui nelle opere create da questi artisti puntava a mettere in crisi le nostre attese, per liberare la ragione dal già noto e da associazioni mentali automatiche. Ebbene, anche in ogni fotografia di Fausto Meli è presente un elemento “anomalo”, ma nel suo caso né decisamente incongruo né vistoso, anzi talvolta così poco appariscente da essere individuabile solo prestando attenzione all’immagine. Un elemento inaspettato che, nelle opere di questo autore, si pone in relazione con quel che mostrano le sue fotografie (un edificio avveniristico, un castello affacciato sul mare, un’antica biblioteca, un’isola vulcanica…) creando incontri capaci di generare una nuova bellezza, nuove aperture di senso, nuove riflessioni…
(dall’introduzione di Gigliola Foschi)
Ritagliare un'immagine ha un aspetto paradossale: costringe a venire a patti con la materialità di ciò che per eccellenza giudichiamo impalpabile. John Mitchell, nel suo Pictorial turn, scioglie così l'apparente contraddizione, distinguendo tra image e picture, "Picture [...] è l'immagine come appare su un supporto materiale o in un luogo specifico. [...]. L'immagine [image] non appare mai se non in un determinato medium, ma è anche ciò che trascende i media e può essere trasferito da un medium all'altro". Non si ritaglia una image, dunque, ma una picture. Tuttavia, operare sulla picture significa anche - eventualmente - generare nuove images.
Il lavoro di Colomba D'Apolito si colloca esattamente in questo solco, testandone limiti e possibilità. Cuts-up, dunque, che operano sul supporto non per una presa di posizione antimoderna, ma per una scelta di campo altrettano precisa.
(dal testo critico di Enrico Gullo, Storico dell'arte e PdD in Storia dell'arte)
Pierre André Podbielski è un compagno di viaggio: per corridoi di musei, per sale illuminate dove l’opera d’arte assiste, più che mostrarsi ai visitatori. Assiste a quel pubblico dell’arte che mi ha tenuto compagnia per cinque anni, e che ritrovo con le sue modalità nelle fotografie di Pierre André. Ma il suo tempo fotografico, la sua sorpresa estetica dentro gli spazi espositivi ha una cosa che io non possiedo, e che è dei fotografi veri, che è di uomini come Elliott Erwitt. Pierre André Podbielski è un fotografo ironico, divertito, sospeso, distaccato ma con simpatia. Nelle sue fotografie il sorriso lega tutto, tiene assieme le immagini, le racconta ancora meglio.
L’ironia fotografica è una dote invidiabile, perché la fotografia, di per sé, è sempre in bilico, è sempre seria; la serietà di ogni realtà che viviamo, ed è sempre: retorica. È il suo fermare il tempo a renderla solenne, è il suo mettere al centro del nostro sguardo quell’attimo dello scatto a fare della fotografia un momento retorico nel senso buono del termine.
(dall’introduzione di Roberto Cotroneo)
È così vasta la zona d’ombra dove ci nascondiamo a noi stessi da impedire una qualunque grossolana definizione della nostra identità. Chi ha familiarità con questa zona d’ombra sa che per superarla deve compiere un lungo, difficile e a volte doloroso viaggio nella memoria. Ogni uomo trova nel proprio passato immagini che tanto più sorprendono quanto più rivelano la natura fonda delle cose e delle persone; dipanano questa zona grigia che tutti attraversiamo, che le parole non sanno dire ma che la fotografia sa ben rappresentare; spiegano che cosa uno è e come lo è diventato. Tuttavia, il passato non è qualcosa di inerte e il nostro viaggio diviene un gioco di specchi dove si mischiano, in maniera ora familiare ora inquietante, briciole di coscienza e di memoria, di amori e disamori, di realtà e immaginazione. Come se gli istanti che soli ricordiamo e dai quali ricostruiamo i mesi, i giorni e gli anni della nostra vita, appaiano capricciosi, un po’ qua e un po’ là. Mai in maniera diacronica ma secondo i tempi imprevedibili della memoria involontaria. Alcuni ritornano, rassicuranti. Altri ci portano chissà dove, negli altrove che abbiamo abitato e vissuto. Sono i tasselli di un puzzle sempre diverso che è il nostro presente, il problema è metterli insieme… dopo. I ricordi cambiano, quindi, come noi cambiamo e ci tradiscono o, a volte, li tradiamo. Siamo avviluppati al chi eravamo in una spirale che spiega e interpreta il mondo in cui siamo e che, a fine giro, alimenta di nuovo la memoria che ci portiamo dentro: lo ieri da cui proveniamo. Lo arricchisce, a volte addirittura ricostruendolo. […]
(Franco Carlisi)
Sin dal titolo Incognita richiama il particolare rapporto di correlazione e di dissociazione che si instaura tra le realtà note e la loro immagine ricomposta nelle fotografie di Luca Gilli. L’intuizione immediata del significato artistico delle fotografie di Gilli – che eccede la funzione documentale del progetto sulla scuola in tempo di lockdown – si produce a partire dal riconoscimento della familiarità degli oggetti – banchi, lavagne, palestre, computer, sedie – e dal loro immediato disconoscimento, che li situa in una dimensione alternativa, in un regno del bello, a sua volta fondato su un codice personale e tuttavia anch’esso immediatamente riconoscibile. Il più evidente elemento trasfigurante della realtà è la luce che inonda gli oggetti e i luoghi, è l’intensità del bianco che giunge fino al limite della negazione e che dissolve la consuetudine degli oggetti fino quasi a bruciare ogni possibilità percettiva. Ci sono immagini in cui la luminosità e il candore sono talmente portati all’eccesso che due lavagne e una finestra si fondono insieme, altre in cui un ambiente ordinario e privo di aperture diventa una sorta di cubo lucente […]. La luce, elemento naturale, diventa così il segno più evidente dell’intervento dell’artista, che segnala il carattere artefatto della fotografia perché solo attraverso il ricorso a strumenti tecnologici si possono ottenere quelle luminosità e quelle rarefazioni. […]
(Marco Unia, dal testo di Gente di Fotografia n. 78)
[…] Anche quando ci troviamo di fronte a un’opera d’arte incompiuta, la grandezza dell’autore la definisce e la rende in sé magnifica: è l’Incompiuta. È infatti proprio perché non conclusa che l’artista si ammanta di leggenda e di una storia ulteriore che impreziosisce la sua esistenza poiché l’immortalità del suo genio sarà sempre ricondotta al suo essere mortale. Il genio è ancora fra noi–immortale–, ma attraverso quell’incompiutezza ci ricordiamo che era come noi–mortale–. Ma un’opera d’arte incompiuta ci dice ancora di più: ci racconta del processo creativo, della smania del gesto autoriale che vuol giungere all’essenza, della vitalità della genialità che lotta con l’indolenza della malattia, del mistero di una mente che non si avvede della bellezza creata e l’abbandona, di un’epoca contraddittoria, come tutte le epoche, che stabilisce i canoni ma non riconosce i capolavori. Nessuna opera artistica incompiuta è minore,proprio perché è più aperta di un’opera d’arte conclusa. Per comprendere fino in fondo la meraviglia che provoca una tale incompiutezza basti soffermarsi sul disagio che invece produce un’altra tipologia di opere incompiute: quelle infrastrutturali, edili, urbane. […]
Uno che di nome si chiama Lenin deve per forza avere un percorso segnato. Troppo forte è l’imprinting, il marchio di fabbrica che richiama lotte contadine, coscienza popolare, il grande sogno comunista che si è spezzato con la dittatura sovietica ma che da noi, soprattutto nella nostra pianura emiliana, è rimasto un’utopia irrealizzata. E allora chi si porta lievemente sulle spalle ciò che più che un onere è un onore ci sta che consacri la sua esistenza alla vita spartana dei campi tinteggiata con i colori della campagna, profumata dall’odore del fieno e delle stalle, incorniciata dai tramonti quando l’erba cambia colore. Ed è il lavoro nei campi, la pace della natura che avvicina gli uomini alla poesia. Poesia delle cose e dell’anima, linguaggio che si nutre delle vibrazioni della terra umida, fertile, a volte arida. [...] L’occhio fotografico di Paolo Simonazzi coglie alla perfezione la natura delle cose e le fa rivivere nella loro essenza fatta di colori pastello, disordine creativo, frammenti di vita vissuta. [...]
Luca Manfredi cammina e porta negli occhi le tracce della sua memoria: i Pavee Kids Ireland. Bambini precoci e misteriosi, bambini che hanno come riferimento fonti arcaiche dove lo sradicamento dal luogo non coincide con la sofferenza, ma la libertà.
A dieci anni con il loro cavallo sono già come adulti completi. Si aggirano per i campi con un’aurea azzurrina sulla pelle e un’agitazione sul viso come se non smettessero mai di cantare, sono piccoli, più o meno otto anni, ma per chissà quale ragione inadeguata e confusa siamo davanti a “uomini” che ci precedono. Hanno tanti fratelli e sorelle, cresciuti in scuole improvvisate, sono figli di famiglie numerose dove si riconoscono gesti e segni senza nessuna ipocrisia moderna.
Rivista semestrale.
172 pagine, formato mm 220 x 300.
La pubblicazione si rivolge ad amanti della fotografia, fotografi professionisti, artisti, galleristi e operatori del settore culturale come fonte di approfondimento, confronto e anticipazione delle tendenze creative.