C’è un ordine nelle cose, una giusta misura, un equilibrio.
E qualora non ci fosse, qualora fosse il caos, il disordine, a regolare la natura, la società, fino al paesaggio umanizzato, allora ecco intervenire lo sguardo di Paolo Ferrari, che nella oggettività disorganizzata, trova la materia, la sostanza primordiale per la formazione del proprio mondo ordinato, il proprio cosmo. Come gli antichi filosofi attingevano dal dato sensoriale per disquisire sul mondo dell’invisibile, così negli scatti dell’autore la realtà raccolta prende vita e corpo trasformandosi in metafora del quotidiano animato, anzi umanizzato, aperto agli sguardi. La contemplazione è dunque il punto di partenza e il punto di arrivo; l’assenza di eccessi determina una visione classica di eleganza, serenità ed equilibrio. In coerenza con questo presupposto, l’attrazione che il cosmo ordinato esercita sull’uomo, in virtù della bellezza che esprime, è da sempre legata all’idea di forma eidos, che coincide con la “cosa veduta”. E perché non traslare il concetto alla “cosa fotografata”? Lo sguardo vede, sceglie, raccoglie, ferma il tempo e crea lo spazio [...]
(dal testo di Stefania Lasagni)
Il perturbante fascino di un’altalena, un salto nel vuoto, quella vertigine intesa come ebbrezza che – sollevandomi dal mondo reale e dalla sfera razionale – mi porta in quella Terra di Mezzo sospesa, sull’orlo di un imponderabile abisso nel cui buio mi appare il gorgo della vita. Impossibile sottrarmi a questo gioco capace di risvegliare il senso di meraviglia, in una sorta di monologo tra me e me, che indaga sulle molte sfaccettature della natura delle cose. Attraverso ombre e riflessi mi accorgo che togliendo me stessa dalle cose che mi circondano, restituisco loro la propria originaria dignità e, con essa, anche un’autonomia dalla mia attenzione, dalla mia energia, che le svincola e permette loro di librarsi. Il mondo diviene specchio dei miei contenuti più nascosti e delle mie proiezioni, in modo del tutto inconscio e involontario. Finestre come punti di osservazione e dialogo. Voli di stormi che suscitano la mia immaginazione. Contesti protesi a farmi tendere l’orecchio alla straordinaria sinfonia dell’esistenza. Quello di Paolo Ferrari è un libro scritto con la fotografia come comunicazione fondata sulla trasmissione di messaggi autentici, rispondenti all’essere dell’autore e impossibili da racchiudere nella mera convenzione del parlato.
(Daniela Bazzani)
Un progetto pluripremiato:
Il titolo è: “Un luogo bello”
Due sono i punti di riferimento che Alessandro Mallamaci ci offre per entrare nel merito della sua narrazione. Il primo è geografico: “La vallata della fiumara Sant’Agata trova asilo tra la terra rossa delle montagne dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, e si spinge verso il mare, fino a tuffarsi nello stretto di Messina. Il nome del corso d’acqua ha origine dal greco aghatè, che si lega a concetti quali bellezza, bontà, e nobiltà; come se i viaggiatori del periodo magnogreco avessero subìto l’incanto di questo luogo”. Il secondo è affettivo, una sorta di postfazione che intende chiarire il titolo del suo lavoro: “Questo è il mio paesaggio. Non posso non amarlo. È un luogo bello”. Una spiegazione non richiesta che mette in evidenza, da subito, dalla prima immagine, un legame forte ma anche consapevole e doloroso nei confronti di un paesaggio amato.
Ora il viaggio può iniziare. Siamo in Calabria, nei luoghi nei quali Mallamaci vive. Luoghi che mettono a confronto paesaggi sublimi e speculazioni edilizie, natura incontaminata e natura corrotta dall’uomo e dalle sue storie, reperti storici e rifiuti industriali, tradizioni popolari ricche di fascino e governo della ‘Ndrangheta. Le contraddizioni, come lui stesso sottolinea, sono il leitmotiv di questa zona d’Italia e tra queste alternanze, per cinque anni, Mallamaci si muove e lavora. Cerca per la sua fotografia una distanza equa che faccia dialogare dettagli e visioni allargate, persone e cose, che costruisca un itinerario che si sviluppa in verticale nel quale si inseriscano – quasi una pausa – visioni orizzontali.
(dal testo di Giovanna Calvenzi)
Dimenticanza è una sorta di memoir che ho realizzato nel 2020, durante la pandemia, per fermare sulla carta l’amore che mi lega a mia madre, scomparsa nel 2019.
Contiene fotografie trovate nei suoi cassetti, fotografie che la ritraggono nell’ultimo periodo della malattia durata più di 7 anni, fotografie che nell’arco di quel lungo difficile tempo scattavo senza consapevolezze precise e che si sono palesate come collante ideale per il racconto emozionale che volevo trasmettere.
Ho impiegato 5 anni per decidere di pubblicare questo libro, prima non ne sono stata capace.
È il mio piccolo scrigno di vissuto e di sentimenti, è la testimonianza di un dolore indimenticato e indimenticabile.
(dal testo di Antonella Monzoni)
Lo sguardo di Giacomo Sinibaldi si manifesta attraverso immagini essenziali nella loro composizione, ma che rivelano una profonda e complessa narrativa. Le sue fotografie, frutto di una costante ricerca del quotidiano e del consueto, riprendono scorci e dettagli che convivono sincronicamente nello spazio urbano, e sono il risultato di un’attenzione volta a trovare connessioni e incontri tra geometrie, colori ed altri elementi che partecipano a comporre uno speci.co vocabolario visivo, mirato a sintetizzare e metaforizzare le suggestioni percepite passeggiando nella città. L’autore ritrae una realtà che si rivela al suo sguardo come una densa visione, e utilizzando scritte e segni come elementi visivi e come indizi della presenza umana, della storia dei luoghi e delle tradizioni passate, riesce a far emergere particolari nascosti sotto la superficie, che agiscono come punti di riferimento e di guida per condurre l’osservatore in un viaggio dentro la città di Pescara, nelle sue trasformazioni e nel suo continuo movimento.
(dal testo di Massimo Agus)
Le immagini di Giorgio Dellacasa, figlie della seconda generazione di fotografi occidentali approdata sull’isola tra la fine del secolo scorso e i giorni nostri, fra cui Martin Parr e soprattutto Alex Webb, sembrerebbero inscriversi a pieno titolo nella street photography. Sembrerebbero: il condizionale è d’obbligo ed è dovuto a quell’istinto da viaggiatore autentico che muove l’essere umano alla comprensione e alla scoperta, rifuggendo invece ogni forma di predazione, inclusa la predazione visiva di cui sovente è pervasa la fotografia di strada.
I brevi testi autografi che corredano il libro lo trasformano idealmente in una sorta di taccuino illustrato e ci consentono di entrare in maniera non invasiva negli ambienti nevralgici e periferici della capitale.
A partire dal titolo, in cui compare il verbo ricambiare e dall’uso consapevole degli strumenti offerti dalla grammatica fotografica, rimandano a un colloquio amicale.
Le luci morbide o filtrate addolciscono i toni, aprendosi all’intimità; le ampie e taglienti zone d’ombra segnano forse un silenzio impenetrabile, stabilendo un limite alla nostra saccenza; la vicinanza o la distanza con i soggetti, nonché i loro gesti, misurano lo spazio d’interlocuzione, ammettendo diversi gradi di confidenza. Ancora, poiché presenti in varie immagini: le quinte o le «inquadrature naturali», come le definiva Luigi Ghirri, oltre a dirigere lo sguardo, di nuovo funzionano da elementi discorsivi, introducendo brevi ma acuti incisi al dialogo.
In sostanza, Giorgio Dellacasa non parla di La Habana, parla con La Habana.
(dall'introduzione di Laura Manione)
Fotografie di oggetti ben composti ma con qualcosa di anomalo, che li fa somigliare a surreali e stravaganti giocattoli. Però senza nessuna tensione drammatica, senza nessuna atmosfera inquietante. Pure il bianco e nero si presenta lieve. E la composizione risulta equilibrata, perfetta, come solo sa fare un maestro dello still life, quale Mario Cucchi indubbiamente è. Anche il titolo, C’est la vie, ha qualcosa di giocoso, ma con una punta di amarezza.
(dall’introduzione di Gigliola Foschi)
[...] La città che Giuliana Mariniello sceglie di raffigurare è quella che mostrano gli occhi: caratterizzata da impalcature rivestite di teloni decorati con immagini pubblicitarie o da riproduzioni della struttura architettonica occultata; è lo spazio punteggiato da tabelloni per affissioni collocati sullo sfondo degli edifici; sono automezzi pubblici travestiti con decalcomanie. La sua trascrizione fotografica di questo ambiente, che quasi sempre percepiamo inconsciamente e senza impegnarci a guardare per capire, è riletto mediante un’inquadratura selettiva e con l’uso sapiente dell’à plat di tradizione matissiana, in modo da trasformare radicalmente i rapporti prossemici fra le cose rappresentate e suscitare nuovi significati, frequentemente carichi d’ironia.[...]
(dall’introduzione di Massimo Mussini)
Rivista semestrale.
172 pagine, formato mm 220 x 300.
La pubblicazione si rivolge ad amanti della fotografia, fotografi professionisti, artisti, galleristi e operatori del settore culturale come fonte di approfondimento, confronto e anticipazione delle tendenze creative.